Viviamo in un tempo che Bauman definiva interregno dell’indignazione, un sentimento che ha dominato lo spazio pubblico per anni, manifestandosi come un grido impotente. Oggi, però, non è più solo paralisi: si è trasformata in carburante per nuove forme di populismo autoritario che promettono risposte semplici a problemi complessi, sfruttando la frustrazione collettiva.
Non siamo però ingenui. Sappiamo che la formazione del consenso e della volontà politica non è più libera né spontanea, ma sempre più mediata dai social, dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale, potenti strumenti di profilazione, radicalizzazione e manipolazione del discorso pubblico. I dati non sono semplici strumenti, ma la nuova merce di scambio con cui le grandi piattaforme predicono e orientano i nostri comportamenti. La politica, così, rischia di diventare un gioco truccato, in cui le scelte non nascono dal confronto democratico, ma da flussi di informazioni distorti, costruiti per massimizzare coinvolgimento ed emozioni reattive.
Per questo, la risposta non può essere il rifiuto della tecnologia, ma la costruzione di comunità capaci di riappropriarsi degli spazi di discussione, di elaborare pensiero critico e di contrastare la manipolazione e la radicalizzazione sistematica. La democrazia non può esistere senza cittadini consapevoli, e la consapevolezza è la prima forma di resistenza.
In questa direzione sembrano andare le riflessioni che Ernesto Maria Ruffini sviluppa nel suo recente Più uno (Feltrinelli). «Oggi – scrive Ruffini − la politica sembra smarrita, disorientata in un mondo sempre più complesso e frammentato… pare guidata unicamente dal tentativo di intercettare il consenso e gli umori estemporanei dell’opinione pubblica. Un pensiero debole che fa sembrare tutto possibile e dove ogni posizione sembra poter convivere col proprio contrario». Questo non solo ha allontanato i cittadini ma ha anche «alimentato la sensazione che la politica non sia più in grado di ispirare o di offrire una prospettiva che guardi al futuro».
L’unico antidoto a questa politica che oggi appare troppo carica di problemi e troppo svuotata di pensiero (Ceruti) è la comunità. È nel riconoscersi reciprocamente come parte di un destino comune, che l’indignazione può diventare trasformazione. Occorre promuovere processi di senso e di partecipazione all’interno dei quali trasformare la rabbia in progetto, l’attesa in azione, impedendo che il vuoto politico diventi terreno fertile per una crisi irreversibile della democrazia.
Promuovere processi, dunque, non occupare spazi, scriveva papa Francesco nella Evangelii gaudium. A questo punto si impongono alcune domande: chi è in grado di farsi carico di questo compito? E, soprattutto, chi ha sufficiente credibilità per coinvolgere energie e intelligenze nuove? E ancora, quale pensiero, quale cultura, possono sostenere e alimentare questo compito?
Alle prime due domande, non ci sembra che le riflessioni di Ruffini diano risposte esaustive. In fondo, come l’autore stesso riconosce, il suo libro si limita a suggerire «un metodo: quello di ricominciare a parlare e ad ascoltarsi, perché così nascono idee e proposte». E tuttavia, nella costruzione della risposta alle prime domande, è importante, per evitare nuove e questa volta più gravi disillusioni, la discontinuità: di comportamenti, di «abiti virtuosi» (Dossetti), di linguaggio. Da questo punto di vista resta inattuato l’ammonimento di Moro: «Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò perdente».
All’ultima domanda, invece, il contributo di Ruffini è più tangibile, non soltanto perché propone una serie di temi che toccano la vita concreta delle persone e di possibili soluzioni, ma perché da esso affiora un’ispirazione culturale che rinvia alla tradizione di pensiero del cattolicesimo democratico.
La risposta alla domanda su quale ispirazione debba sostenere il processo di riappropriazione della democrazia, pensiamo debba essere scritta da credenti e da non credenti, uniti dall’ideale democratico e dal riconoscimento che anche l’esperienza religiosa può nutrire quell’ideale. Da questo punto di vista attuali sono le parole del filosofo personalista francese Jacques Maritain:
«Non basta definire una società democratica dalle sue strutture legali. Un altro elemento gioca una parte profonda, ossia la leva attiva, l’energia dinamica che mantiene il movimento politico, e che non può essere inscritto in alcuna costituzione né incorporato in alcuna istituzione, poiché esso è, al tempo stesso, personale e contingente, e ha le sue radici nella libera iniziativa. Mi piacerebbe chiamare questo fattore esistenziale un fattore profetico. La democrazia non ne può fare a meno».
Ad escludere nostalgie storicamente superate, soccorrono le parole di Dietrich Bonhoeffer, teologo impiccato in un campo di sterminio nazista:
«Il cristiano non è un uomo religioso, ma un uomo semplicemente, così come Gesù era un uomo… Il Regno di Dio non è irraggiungibile… è il prossimo che è dato di volta in volta, che è raggiungibile… Dio in forma umana! Non il lontano, l’assoluto, il metafisico… ma l’esserci-per-altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza!».
Queste parole non solo aiutano a ridire il cristianesimo in forme nuove e più autentiche, non più come dottrina, ma come vita «piena di vita» (Recalcati), ma indicano anche il metodo inclusivo dell’agire: «La sola metodologia di vittoria – direbbe La Pira – è la rinuncia a sé stessi, il distacco radicale dalla propria piccola sfera… Gli strumenti che suggeriscono l’ambizione, la colpa, la meschinità, sono strumenti radicalmente privi di efficacia politica».
(fonte: settimananews.it -Luigi Lochi e Francesco Capone responsabili della Scuola di formazione alla politica della Diocesi di Lecce)