La prima proveniva da una famiglia aristocratica, il secondo era figlio di schiavi africani. Dicono che avere un amico è meglio che avere un diritto: un amico nel posto giusto, ovviamente. Avere un santo è ancora meglio che avere un amico o un diritto. Nella città dove spesso ci vuole un santo per ottenere un diritto, un lavoro o il permesso di accesso nella Ztl, ciascuno si sceglie il santo suo: al Comune o alla Regione, in un partito, in una loggia massonica o in Cosa Nostra.
In teoria, la Santuzza è di tutti i palermitani. Ma a Palermo i patroni della città sono molti, ad esempio le quattro sante – Agata, Ninfa, Oliva e Cristina – che troneggiano abbastanza ignorate in cima ai Quattro Canti, spazzate via quattrocento anni fa da Rosalia che in un colpo solo spazzò via la peste e diede la risposta giusta ai palermitani che aspettano sempre il miracolo che aggiusti le loro vite. Ma nella Palermo che ama l’eccesso, perfino quello sacro, c’è anche Benedetto da San Fratello detto il Moro, anch’egli patrono della città, rispolverato dall’oblio da Leoluca Orlando che ne fece emblema di una religiosità alternativa. Ciascuno si sceglie il santo o la santa che più gli piace o che chi sembra più funzionale ai propri desideri e culturalmente affine. E si potrebbe discutere a lungo se Rosalia Sinibaldi, giovane nobildonna normanna, cresciuta sotto le volte a mosaico di palazzo reale, bianca e appartenente all’establishment, è una santa di destra. Politicamente di destra, diciamo così, rispetto a Benedetto Manasseri, figlio di schiavi africani, probabilmente senza permesso di soggiorno, cresciuto sui Nebrodi, povero come un viddano, visibilmente nero, spiccatamente di sinistra, sicuramente militante di una qualsiasi Ong. Palermo, che ama conflitti, duelli, derby e contrapposizioni sociali declinati (con cortese ferocia) sotto forma di frequentazioni di scuole, circoli, salotti e ristoranti da dove passano distanze e differenze, deve fare i conti con due santi teoricamente divergenti.
Rosalia che possiamo immaginare cresciuta nelle scuole migliori, con le amicizie giuste, le feste nelle ville di Mondello, appartenente a quella che i giornalisti amano definire la “Palermo bene”. E Benedetto il Moro, analfabeta, cresciuto tra boschi e montagne, senza agganci e conoscenze, un pierincritati abbastanza rozzo, guardato con un misto di pietà e di sospetto dai cittadini che alzano il sopracciglio quando Benedetto sbaglia a impugnare coltello e forchetta.
Nei giorni in cui convegni e manifestazioni tornano a glorificare la santa o il santo – la signorina Rosalia o lo zù Benedetto – Palermo ha un’altra buona occasione per dividersi, per decidere da quale parte stare: con i ricchi o con i poveri, con i potenti o con gli emarginati, con le donne o con gli uomini, con la destra o con la sinistra. Una frase diventata proverbiale dice: beato quel paese che non ha bisogno né di santi né di eroi. Palermo ha i suoi eroi, molti eroi.
La sua storia tragica ha prodotto troppi eroi, a un prezzo altissimo. E ha pure i suoi santi. Molti, forse troppi, messi sugli altari di tantissime chiese da tantissimi preti e da moltissimi cardinali. La storia torna a ripetersi, in forme diverse. Ciascuno può scegliere l’eroe che preferisce (c’è chi sceglie le vittime della mafia, c’è invece chi sceglie Iddu o qualcuno che gli somiglia). Ciascuno può scegliere il santo o la santa che preferisce, bianca o nero, santuzza o frate, normanna o africano.
Nel derby palermitano non è in palio il gol o lo scudetto. In gioco è il miracolo. Miracolo collettivo o individuale: la scomparsa dell’immondizia dalle strade o l’ottenimento di una pensione. La città aspetta il miracolo, ognuno aspetta il proprio miracolo. Qualcuno prega Rosalia, qualcuno prega Benedetto. Con un solo timore, la paura di restare inascoltati, il terrore di scoprire ancora una volta che il santo è di marmo e non suda.
(fonte: repubblica.it – Gaetano Savatteri)