Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?
Questa sera alle ore 18,oo grazie ad un incontro organizzato dall’Anpi “Aldo Natoli” e Feltrinelli di Messina, si può affrontare questa tematica con l’autore Eric Gobetti che presenterà il suo libro “I carnefici del Duce” presso la Libreria Feltrinelli di via Ghibellina. Introduce Giuseppe Restifo, dialogano con l’autore Antonio Baglio e Alessandro Grussu.
Di seguito una recensione del libro de La Civiltà Cattolica de 2 febbraio 2024
La storiografia relativa al fascismo prosegue nel meritorio lavoro di scavo, consentendoci così di approfondire la conoscenza del periodo mussoliniano. Ci si offre, di conseguenza, l’opportunità di affrontare temi trascurati, traumi rimossi, eccidi passati sotto silenzio, e di riflettere sugli uni, sugli altri e altri ancora.
Questo saggio dello storico Eric Gobetti si propone di prendere in esame un argomento del quale, nel nostro Paese, si è parlato e discusso assai poco: i crimini di guerra commessi all’estero nel corso del Ventennio. Veri e propri massacri, diffusi e reiterati, i cui autori godettero in seguito di una sostanziale impunità. Essi si erano macchiati di rappresaglie, impiccagioni, utilizzo di armi chimiche, fucilazioni di ostaggi, stragi di civili, internamenti di massa, ma erano stati personaggi «troppo in ombra e indirettamente responsabili, per essere inquisiti nel dopoguerra» (p. 50). Di lì a poco, dunque, al termine del conflitto, molti di loro si ricicleranno, resteranno al loro posto o saranno persino promossi, incarnando così la cosiddetta «continuità dello Stato».
Lo studio ricostruisce la vita e le vicende di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato attivamente al compimento di quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, numerosi sono stati quelli che hanno contribuito a rendere un cospicuo numero di operazioni militari una «discesa agli inferi», un autentico viaggio nell’orrore.
Lo storico, che integra la sua analisi con ampie citazioni tratte da vari memoriali, si occupa, tra gli altri, di Eugenio Coselschi e Giuseppe Pièche. Giornalista e attivista di origine slava il primo, Comandante Generale dei carabinieri il secondo, erano stati entrambi attivi in Jugoslavia, uno dei teatri nei quali la violenza dell’esercito fascista si era dispiegata con maggiore crudeltà. I due riuscirono però a farla franca, insieme – per esempio – a pezzi da novanta del calibro del «macellaio del Fezzan» Rodolfo Graziani, di Mario Roatta, capo del Servizio segreto militare (Sim), e di Alessandro Pirzio Biroli, il generale che si era distinto per brutalità nella repressione dei «ribelli» in Etiopia e Montenegro, e a molti altri.
Va però anche notato come Gobetti affianchi alla descrizione delle «gesta» di quei criminali il ricordo di quanti si opposero agli eccidi: il console a Mostar Renato Giardini, che denunciò la situazione nei suoi resoconti; i partigiani Ilio Barontini e Umberto Graziani; il sacerdote bergamasco Pietro Brignoli, che fu cappellano prima in Etiopia e poi in Slovenia e, pur non mettendo in discussione la guerra né la necessità delle operazioni militari, non perse la sua umanità, arrivando a condannare ogni violenza gratuita.