• 29 Aprile 2024 22:22

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

A Palermo è andata a fuoco la chiesa del “Santo Nero”, Benedetto il Moro. Nacque in schiavitù, da due schiavi africani, nel paese di San Fratello. Privo di ogni diritto. Tantomeno del
diritto alla santità. Oggi ha migliaia di devoti

di Luca Casarini – Tutti gli anni la Sicilia brucia. Viene da chiedersi come possa questa ricorrente ed infernale condanna essere ritenuta, tutti gli anni, una emergenza. E come si possa, tutti gli anni, essere colti di sorpresa, non avere ogni volta sufficienti forze e mezzi, incolpare ogni volta le mancate opere di manutenzione del territorio e via così. Quest’anno poi, con temperature altissime ampiamente annunciate, il tutto suona davvero come una farsa, quella che segue la tragedia già andata in scena con numerose repliche. Nemmeno le sirene che suonano ininterrottamente, di giorno e di notte, sono una novità a Palermo. E non si distinguono quelle delle auto blindate da quelle delle ambulanze, o dei pompieri.
Ma anche dentro una abitudinaria emergenza, con le sue sirene, il fumo acre che aleggia spargendo diossina dalla discarica in fiamme di Bellolampo, accadono fatti che impressionano ancora: la signora morta dentro l’ascensore bloccato dal blackout dovuto ai roghi e al caldo, le persone morte bruciate e asfissiate a casa loro, circondate da fiamme che nessuno ha potuto spegnere in tempo. E la distruzione della Chiesa di Santa Maria di Gesù, con i suoi settecento anni di storia, molto cara ai palermitani.

È la chiesa del “Santo Nero”, San Benedetto il Moro, uno dei patroni “minori” della città, che ha appena rinnovato per la 399ma volta la sua devozione, lo scorso 14 luglio, alla “Santuzza”, Santa Rosalia, signora incontrastata della fede panormita. Ma il fatto che stavolta siano bruciate le reliquie, custodite con grande cura dai frati francescani dal 1589, del Santo nero, ha fatto piangere e disperare i molti accorsi appena si è sparsa la notizia. Il fumo degli incendi dopo un po’ dirada, spinto dal vento di scirocco che butta a libeccio, l’incendio che assedia dai monti la città prima o poi si acquieta, ma quando se ne andrà il senso di cattivo presagio per aver lasciato bruciare un santo?

Viene subito da andare sotto il grande murales di San Benedetto, voluto dal Mediterraneo Antirazzista e dipinto dall’artista Igor Scalisi Palminteri, a Ballarò. E di cercare quella storia del “santo schiavo”, di cui ha scritto una professoressa dell’Università, Giovanna Fiume.
Sotto il murales e con le sue pagine che scorrono, forse il senso di colpa per questo sfregio al santo, potrà diminuire. San Benedetto il Moro, però, è abituato alle ingiurie e alle offese. Perché lui, e questo rende ancora più straordinaria la devozione popolare che lo ha letteralmente sollevato agli altari della santità, era uno schiavo. È nero, etiope come Sant’Antonio. Schiavo figlio di schiavi. “O scavuzzu” per il popolo, che addolciva con il diminutivo quello stigma che non gli avrebbe consentito mai, secondo il diritto canonico e la cultura del tempo, di essere santo. E nemmeno appartenente ad un ordine religioso, in questo caso a quello francescano.

Ma Benedetto il Moro, nato a San Fratello in provincia di Messina nel 1524 da due africani, Cristofalo, schiavo del casato dei Manasseri, e Diana, schiava della famiglia Larcan, ha contribuito a rompere leggi, usi, consuetudini e a imporre a Santa Romana Chiesa di mutare l’approccio verso un sistema, quello schiavile, che era non solo accettato, ma anche sostenuto.

Nessuno schiavo “negro” era degno allora, per i custodi della fede, di rappresentare i cives christiani. La sovrapposizione tra diritto giuridico e confessionale, portava all’esclusione dalla vita civile e religiosa di fi gure ritenute “infami”, cioè che godevano di cattiva fama. Malfattori e criminali, eretici, poveri dalla cattiva reputazione.
A questi si aggiungevano quanti considerati “fisicamente” incompleti: schiavi, servi, minori, donne. Il ruolo del “Santo schiavo” da Palermo, nella rivoluzione che portò il francescanesimo a diventare un linguaggio capace di contrapporsi e contrastare nei secoli le logiche di esclusione sociale che dominavano la società, è fortissimo. Benedetto è nero, ma è anche schiavo, in quanto secondo ciò che scrive il suo primo agiografo, il Daca, nel 1611 “Nacque negro e schiavo… siguiendo la condicion de su madre nacio negro y esclavo”. Fructus secuitur ventrem, e quindi la
madre trasmette la condizione di schiavitù al figlio, come se le catene fossero anticipate dal cordone ombelicale.

Ma Benedetto il Moro, schiavo nero e analfabeta, sembra proprio essere la testimonianza concreta dei mille strumenti dei quali si dota la grazia divina. Come peraltro profetizza, dopo averlo incontrato a San Fratello, Gerolamo Lanza, eremita di San Francesco e già considerato un santo. Benedetto ha ventun anni. Sta lavorando attorno ai buoi del padrone, mentre come al solito alcuni mietitori lo scherniscono, lo prendono in giro. L’eremita li rimprovera e rivela la profezia: “Voi altri vi prendete gioco di questo schiavetto ma fra pochi anni sentirete la fama sua”. Benedetto seguì Gerolamo, e cominciò così la sua vita da eremita, prima sui monti di Santa Domenica, non lontano da San Fratello, poi alla Mancusa, tra Partinico e Carini, e infine a Monte Pellegrino, sopra Palermo. Nonostante dedichi la sua vita a servire anche nei lunghi anni del convento di Santa Maria di Gesù, fa il cuoco e si dedica ai lavori più umili, la sua fama cresce tra il popolo. E tra gli schiavi neri.

È presto considerato un santo in vita, oggetto di continue richieste di guarigioni. Dopo la sua morte, nel 1589, comincia ad essere raffigurato, ed è proprio la sua storia e queste immagini che cominciano ad espandersi da Palermo fino a oltreatlantico, nelle Americhe. I fedeli palermitani, ancor prima che giungesse indicazione da Roma, prendono le sue spoglie mortali e le trasferiscono dal cimitero comune del convento, all’interno della Chiesa, come si fa con i santi già canonizzati. Il culto del santo schiavo in pochi decenni è presente in tutta Europa e oltre atlantico. Nel 1715 la Chiesa, nell’ambito del lungo processo per il suo riconoscimento come Beato e poi Santo, avvia una sorta di censimento delle forme di culto a Benedetto, e i risultati sono straordinari e inspiegabili.

Ad esempio a Cordoba, in Spagna, in occasione della processione per il Corpus Domini, la statua di Benedetto precede quella di San Francesco. A Pernanbuco in Brasile si registra che “un popolo immenso il quale tutto acclama San Benedetto”. A Città del Messico, nella grande processione di neri che ha luogo il lunedì e il martedì santo, si venera San Benedetto. Sono nate confraternite a lui intitolate, ma questo straordinario “contagio” del culto del Santo schiavo, ha a che fare con molteplici fattori: innanzitutto la schiavitù, mediterranea e del “nuovo mondo”, che dopo le deportazioni forzate di esseri umani da forzare al lavoro, si trasforma in afro-discendenza, con un nuovo soggetto sociale che si organizza per liberarsi dalle catene e dallo stigma. La “conversione” al cristianesimo è un’arma potente in mano agli schiavi e ai loro discendenti, proprio perché mette in crisi quelli che il cristianesimo l’hanno usato per riprodurre ingiustizia ed esclusione. Il processo francescano di rottura con la Chiesa dei dotti e dei sapienti, ha a che fare con una evangelizzazione diversa da quella immaginata per inferiorizzare i neri. Viene usata al contrario: per includere e come mezzo di mobilità sociale. L’appartenenza degli schiavi alle confraternite, crea uno spazio politico di identità, di resistenza allo sfruttamento disumano, e all’assoggettamento alla cultura dominante dei bianchi.

È un tassello fondamentale della “cosciencia negra”, che si traduce in pratiche concrete contro le forme più estreme di schiavitù, fino a diventare la base per progetti di sovversione e di fuga. San Benedetto il Moro è uno dei simboli, ancor oggi, dell’esodo necessario da questa terra dei Faraoni. Della visione di un altro mondo dove quello che ci dicono che sia impossibile, diventa possibile.

Onore a te grande santo schiavo e nero. Possano le tue ceneri, oggi liberate nell’aria di Palermo, viaggiare sempre per il mondo e coltivare il pensiero proibito della libertà.
Onore a te, grande schiavo negro!

(fonte: unita.it)