È la pietra miliare della dottrina sociale della Chiesa, un testo che suscitò un grandissimo interesse fin dalla sua prima pubblicazione e che non ha perso la sua attualità. L’enciclica Rerum novarum, promulgata 134 anni fa, il 15 maggio 1891, da Leone XIII è tornata al centro dell’attenzione con l’elezione al soglio pontificio di Robert Francis Prevost. Papa Leone XIV, incontrando i cardinali due giorni dopo l’Habemus Papam, ha affermato infatti di aver scelto lo stesso nome di Papa Pecci perché “Leone XIII, con la storica Enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale”.
Un argomento inedito
Accompagnati da Alejandro Mario Dieguez, Officiale dell’Archivio incaricato della sistemazione del materiale dell’Ottocento e del Novecento, apriamo i faldoni che conservano le carte redatte a mano dai più stretti collaboratori di Papa Pecci così come le lettere di adesione dei vari episcopati o dei circoli operai di tutto il mondo.
“L’interesse che suscitò l’enciclica fu enorme perché – spiega – affrontava un argomento inedito, tecnico, apparentemente lontano dall’insegnamento della Chiesa, che in precedenza sulla dottrina sociale non aveva avuto una formulazione così sistematica”.
Domande sempre attuali
Significativo nel tono del documento pontificio l’atteggiamento di mediazione e dialogo con tutte le forze in campo. “Traspare anche dalla confidenza fatta da Leone XIII a un cardinale, a proposito del socialismo, allora individuato come il grande nemico: «Il socialismo è un torrente contro il quale si presentano tre soluzioni: Sbarrarlo, e si corre il rischio di essere travolti dalla forza della corrente. Lasciarlo passare, rimanendo sulle rive a guardare: e questo sarebbe il metodo dei ‘beati del sonno’ e dello struzzo. Bisogna regolarlo, bisogna incanalarlo: ecco la vera soluzione a cui sono chiamati sia gli Stati che la Chiesa».
Interessante comprendere come nasce un’enciclica. “Non dobbiamo pensare che sia il risultato del lavoro individuale di un Papa”. Il Pontefice infatti commissiona ad esperti nella materia, tenuti al più rigoroso riserbo, uno schema come punto di partenza per una elaborazione più sistematica. “Nel caso della Rerum novarum”, prosegue Dieguez, “Leone XIII poté contare su tre schemi: uno preparato dal gesuita Matteo Liberatore, un secondo dal cardinale domenicano Tommaso Zigliara, che fu poi rivisto e riformato da padre Liberatore e dal cardinale gesuita Camillo Mazzella, tutti e tre eminenti filosofi neotomisti. Questo terzo schema fu poi affidato al latinista di curia Alessandro Volpini per la redazione definitiva e poi all’uditore papale Gabriele Boccali per una paziente opera di revisione, verifica e calibratura del testo”.
Quello che è passato alla storia come il nome dell’enciclica, ovvero l’incipit Rerum novarum con il relativo primo paragrafo, non era presente nelle prime versioni del testo che esordiva con le parole Excitata semel rerum novarum cupidine. “L’incipit – racconta l’archivista vaticano – fu a certo punto cambiato, con maggior proprietà ed eleganza, nel più caratteristico Rerum novarum semel excitata cupidine”. Difficile identificare chi abbia introdotto queste parole. “Si presume sia stato Boccali. Oltre a ipotizzare che l’impostazione iniziale sia stata data dal Papa, vista la novità dell’argomento, sappiamo che il documento fu corretto fino agli ultimi giorni e che Leone XIII sospese tutte le udienze nei giorni precedenti alla sua promulgazione, evidentemente per poter concentrarsi sulla sua revisione finale”.
Certamente interessante è il fatto che non sia possibile identificare interventi diretti del Pontefice. Pecci infatti, precisa Alejandro Dieguez, “non aveva l’abitudine di mettere le sue osservazioni per scritto ma le suggeriva a voce ai collaboratori, che spesso scrivevano sotto sua dettatura. Aveva una mente molto lucida nonostante l’età avanzata, 81 anni quando fu pubblicata l’enciclica”.
L’esperienza dei movimenti operai
Nel documento pontificio confluiscono il pensiero e l’esperienza maturata da diversi movimenti operai cattolici: “quella di monsignor Wilhelm Ketteller, del Vogelsang e dei cattolici tedeschi; quella dell’Oeuvre des Cercles e del movimento sociale cattolico in Francia e in Belgio; quella del cardinale Gaspard Mermillod, dell’Unione di Fribourg e di Kaspar Descurtins in ambito svizzero; dei cardinali Edward Manning di Westminster e James Gibbons di Baltimore; quella del Circolo romano di studi sociali di monsignor Domenico Jacobini e del movimento sociale dei cattolici italiani.
La notorietà della Rerum novarum è sicuramente riconducibile al fatto che, a differenza delle altre encicliche, non fu diffusa solo tramite sunti sui giornali o attraverso le nunziature apostoliche di tutto il mondo e i dicasteri romani. Nell’ottica di un confronto con tutte le parti interessate fu inviata a sovrani, capi di stato, ministri dell’economia e ai più noti scrittori di scienze sociali. “La sola Congregazione di Propaganda Fide ‘per gli Affari Orientali’, ad esempio, ne inviò un migliaio di copie – in latino, francese e italiano- alle diocesi che stavano sotto la sua giurisdizione e si calcola che siano stati distribuite un milione di copie, solo tra Europa e America”, mette in luce lo studioso.
L’Archivio Apostolico Vaticano conserva in un voluminoso dossier della Segreteria di Stato tutte le reazioni all’invio della Lettera Papale. C’è la risposta del presidente francese François Sadi Carnot, a cui Leone XIII volle fosse espressamente inviata una copia, che si diceva «fin troppo consapevole della necessità di affrontare con decisione lo studio di un problema che, imponendosi all’illuminata sollecitudine di tutti i governi, è tanto più impellente in una democrazia pacifica e operosa come la società francese del XIX secolo».
Non solo: “da altre fonti d’archivio – prosegue Dieguez – sappiamo che il patriarca di Cilicia degli Armeni, Stefano Pietro Azarian, che si occupò della traduzione in lingua armena, approfittò dei suoi buoni rapporti con il gran vizir dell’Impero Ottomano Kiamil Pascià per inviargli una copia in francese”. Kiamil gli manifestò «l’alta sua ammirazione per la grave tesi sociale sviluppata dal Santo Padre, con uno stile ed elevatezza di vedute finora non vedute», e la speranza che questo Codice sociale potesse produrre «sommi vantaggi per l’Europa travagliata nelle medesime sue basi sociali».
Anche la Regina d’Italia, Margherita di Savoia, secondo le indiscrezioni dei giornali del tempo, pur conoscendo discretamente il latino, chiese a un professore di lettere dell’Università di tradurle l’enciclica per poterla leggere dal testo ufficiale.
Sfogliando il dossier della Segreteria di Stato, Dieguez ci mostra anche le tante risposte dei circoli operai cattolici di ogni parte del mondo: italiani, francesi, belgi, tedeschi, olandesi, svizzeri, spagnoli, ma anche argentini, cileni, colombiani, peruviani, uruguaiani. Un riscontro davvero universale.
A fronte di tanto clamore, appare stridente il commento da parte di qualche giornale dell’epoca: “Alcune testate, Corriere della Sera in testa, non senza malizia, avevano affermato che nessun sodalizio operaio aveva ancora fatto adesione alle idee proposte dal Papa, e che l’enciclica non aveva avuto un grande successo perché gli operai, a cui era indirizzata, non erano in grado di capirla. Qualche altro giornale, come Il Diritto di Torino, poi, aggiunse che il Pontefice era rimasto talmente deluso che avrebbe assicurato di non fare più encicliche! I documenti del nostro Archivio stanno qui a dimostrare proprio il contrario. Papa Leone, dopo la Rerum novarum, scrisse altre 48 di encicliche!”.
Un numero incredibile, superiore alla metà di quello complessivo. In 25 anni di Pontificato, dal 1878 al 1903, Vincenzo Gioacchino Pecci, non a caso passato alla storia come il “Papa delle encicliche”, di encicliche ne scrisse 86! Oltre tre all’anno. “Tutte redatte in un latino classico ricercato e caratteristico che”, osserva Alejandro Dieguez, “secondo gli specialisti, trasmette una «maestosa solennità».
Il Papa latinista che aprì l’archivio ai ricercatori
Era infatti un appassionato cultore della lingua latina, che padroneggiava con competenza ed eleganza, e un uomo di studio che favorì anche gli studi degli altri, aprendo nel 1881 l’Archivio Vaticano ai ricercatori di ogni nazione e religione”.
(Fonte: Vaticannews.va)