Commento di Fra Marcello Buscemi e Suor Cristiana Scandura
Giovedì della II settimana di Quaresima
Letture:Ger 17,5-10 Sal 1 Lc 16,19-31
Riflessione biblica
“Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” (Lc 16,19-31). Non è la “legge del contrappasso” che è proposta, ma un’attenta riflessione sapienziale in chiave escatologica del convertirsi. La conversione, infatti, non è un automatismo generato da un fatto prodigioso: la risurrezione di un morto. La conversione avviene solo se uno si mette in discussione e si rende disponibile alla verità su stesso e sul mondo che lo circonda. Convertirsi è saggezza: “Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno, poiché improvvisa scoppierà l’ira del Signore e al tempo del castigo sarai annientato” (Sir 5,7). Il punto fermo del racconto non è tanto la relazione tra ricchi e poveri, ma come tale relazione è vissuta in vista della vita eterna. L’errore del “ricco epulone” non sta nel godersi le sue ricchezze, ma nell’indifferenza con cui ha trattato il povero Lazzaro: “Figlio, non rifiutare il sostentamento al povero, non essere insensibile allo sguardo dei bisognosi” (Sir 4,14). Solo la solidarietà vissuta nell’amore può togliere “l’abisso” tra il povero e il ricco. La solidarietà d’amore non ha bisogno di una rivelazione speciale, basta il riferimento al proprio senso umano, e là dove esso è carente bastano le esortazioni di Mosè: “Se vi sarà in mezzo a te qualche fratello bisognoso non indurirai il tuo cuore, ma gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova” (Dt 15,7-8), o quelle di Isaia: “Questo è il digiuno che voglio: dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne” (Is 58,6-7). E l’avvertimento di Gesù: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
Lettura esistenziale
“C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti” (Lc 16,19). Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene: nella prima il ricco e il povero sono contrapposti in un confronto impietoso; nella seconda, si intreccia, sopra il grande abisso, un dialogo mirabile tra il ricco e il padre Abramo. Prima scena: un personaggio avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; il ricco banchetta a sazietà e spreca, Lazzaro guarda con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, se sotto la tavola è caduta una briciola. Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Di quale peccato si è macchiato? Gesù non denuncia una mancanza specifica o qualche trasgressione di comandamenti o precetti. Mette in evidenza il nodo di fondo: un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo, anche se non trasgredisce nessuna legge. Di quale peccato si tratta? «Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato» (Giovanni Vannucci). Doveva scavalcarlo sulla soglia ogni volta che entrava o usciva dalla sua villa, e, impassibile, neppure lo vedeva! Non gli ha fatto del male, no. Semplicemente Lazzaro non c’era, non esisteva, lo ha ridotto a un rifiuto, a nulla. Ora Lazzaro è portato in alto, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno, che proclama il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, nonostante l’inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre. Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita (Ermes Ronchi).