di Palmira Mancuso – E’ da poco superata la mezzanotte. Sono a casa e il peggio è passato. Darius, una delle persone invisibili che popolano la notte di Messina, che cercano un riparo negli anfratti del coprifuoco imposto dalla pandemia, ha finalmente trovato posto nella Casa di Vincenzo. Non è stato facile, ma alla fine ha prevalso il buon senso: perchè non è un documento a sancire la dignità di una persona.
Poteva essere una sera come altre, una di quelle sere che nessuno avrebbe mai raccontato. Invece ho avuto il privilegio di essere presente, li dove spesso non ci sono occhi se non quelli dei volontari, di chi non cerca riflettori, di chi pensa che quello che sta compiendo sia un gesto naturale, che non ammette gratificazione se non quella del dormire sapendo che hai consentito un sonno sereno a chi non ha un cuscino su cui appoggiarsi.
Darius era stato lasciato fuori. Aveva chiesto riparo nel rifugio che per tanti, da qualche anno a questa parte, è un punto di riferimento in città. Ma la discrezionalità aveva prevalso. Nonostante il suo nome fosse conosciuto tra i volontari che ogni giorno si preoccupano di consegnare cibo e coperte, come la sua storia fatta di ricoveri e picchi alcolici, per il dipendente della Messina Social City di turno, era semplicemente “senza documenti”.
Non è la prima volta che accade nel dormitorio pubblico comunale: diversi sono i casi segnalati di persone, magari con documenti stranieri scaduti, che non vengono ammessi sempre dal medesimo dipendente più volte richiamato.
La notizia è corsa veloce, fino a raggiungere Fra Giuseppe Maggiore, un francescano dei Frati Minori che da quando è a Messina conosce tutti i clochard per nome, li chiama fratelli. E si sa, per i fratelli ci si prende qualche briga anche se l’ora è tarda. Così è stato un attimo ritrovarsi in macchina e guidare alla ricerca del rifugio di fortuna per riaccompagnarlo alla Casa di Vincenzo, non senza aver nel frattempo allertato l’assessora Calafiore dell’ingiusta situazione che un dipendente inadeguato aveva causato.
Darius è uscito da pochi giorni dall’ospedale, e una notte alla diaccio nel freddo di un marciapiede inzuppato di pioggia, non era giustificabile. Tra telefonate dal tono severo e la rabbia del tempo che scorre nella preoccupazione di trovarlo, arriviamo in viale della Libertà. Steso sul marciapiede, avvolto in un piumino che è l’unico possedimento assieme ad una sciarpa e poche altre cose, comprese un succo di frutta e due stampelle, Darius è stanco e deluso quando Fra Giuseppe gli dice che lo avrebbe accompagnato. E che se non lo avessero fatto entrare avrebbero dovuto dirlo a lui.
Non ce n’è stato bisogno: a raggiungerci su quel marciapiede è arrivata anche l’assessora Calafiore, visibilmente mortificata per quanto accaduto.
Alla Casa di Vincenzo ci stavano già aspettando. Come si fosse trattato di un equivoco. Come se la parola di Darius e la testimonianza di altri compagni di strada fossero meno credibili della relazione dal tono burocratico di chi era di turno stasera.
Il passo lento dell’uomo in stampelle ha fatto da controcanto all’agitazione dello staff: dalla stanza chiusa risuonava la voce dell’assessora che spiegava le ragioni dell’esistenza stessa della Casa di Vincenzo, mentre Fra Giuseppe urlava che quella “non è una Questura”.
Ma Darius era già lontano. Un cornetto avanzato è stato il sapore dolce della cena a cui aveva ormai rinunciato, e veloce ha preso posto in un letto pulito. Protagonista suo malgrado di una battaglia di diritti, in una città dove paradossalmente la società partecipata dei servizi sociali sembra non rispondere nemmeno all’assessore preposto.