• 2 Maggio 2024 12:11

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

di Nicola Antonazzo – Gli esami delle classi quinte delle scuole superiori sono l’ultimo atto dell’anno scolastico e, come da copione, ogni anno in questo ultimo scorcio di giugno, assistiamo alla solita narrazione della “notte prima degli esami”, del toto-tema, della corsa spasmodica all’ultimo ripasso, dell’emozione-fibrillazione, de “non è la fine ma solo l’inizio”, il tutto infarcito con la solita colonna sonora di Venditti e con i fotogrammi cinematografici di Brizzi. Forse, però, molto timidamente, possiamo iniziare a sussurrare che tutto questo ha stufato e sa di stantio. Una narrazione del genere poteva essere giustificata e considerata godibile al massimo fino al 2019, ma anche qui la pandemia ha scrostato via questa stucchevole e sdolcinata immagine di un quadro adolescenziale che non esiste più.

L’approccio all’esame di stato, quello della maturità, ha smesso di vestire i panni del passaggio iniziatico all’età adulta per indossare quelli del burocratico ostacolo verso “l’università della strada”, quella che insegnerà la vita vera, dove non esistono libri e le verifiche si accreditano con le cicatrici dell’anima. All’esame di maturità si preferisce il provino per un reality o la realizzazione di un tutorial per intraprendere la strada da influencer. La scuola ha ormai abdicato da tempo al suo ruolo educativo a favore di una funzione dai caratteri più simili a quelli dell’intrattenimento emozionale. Ormai è radicata in tutti i protagonisti che ne calcano le scene la convinzione che a scuola si debba andare più per un obbligo legislativo che per un bisogno formativo. Si è iniziato demolendo, giorno dopo giorno, con atteggiamento sprezzante,  la cultura umanistica relegando i classici ad ameno passatempo da fine settimana e da consumazione slow. Si è poi deciso che la scuola dovesse formare al mondo del lavoro. Alla faccia di generazioni di uomini e donne che per secoli  hanno lottato per una educazione e istruzione gratuite e obbligatorie, capaci di strappare i più piccoli dal precoce e innaturale lavoro in campi riservati agli adulti per poi vedere i propri discendenti oscillare tra ore in classe e mattinate in cantiere.

Che senso ha, quindi, ammirando questo desolato panorama, continuare ad etichettare questi pochi giorni di verifica come una prova di maturità? Questa è la condizione di chi si trova sul punto di germogliare, di manifestare al mondo la propria vita e, non da ultimo, saperla donare. Prendiamone atto: questi esami, questi caldi giorni di giugno, tutto sono tranne che la certificazione di una maturità raggiunta. A maturare, invece, è sempre di più la necessità di ripensare un sistema, riportandolo alle sue origini e riorganizzando l’intera esperienza formativa.

Cosa rimane di questi anni se all’indomani delle prove abbiamo ancora la necessità di accompagnare alla scoperta delle radici dell’umano? Cosa abbiamo trasmesso in tredici anni di percorso scolastico se l’ambizione principale di questi ragazzi rimane quella di emergere e per emergere sono disposti sopraffare il prossimo, a mettere a repentaglio l’esistenza di chi passa a pochi metri? Torniamo alle basi. Leggere, scrivere e contare: per interpretare l’enigmatico codice della realtà, per narrare e comunicare vita, per mettere ordine nel caos. Eviteremo così di dover certificare la rassegnazione di un’intera classe docenti, che pur tra mille limiti, combatte in prima linea contro il costante bombardamento cartaceo destinato a sommergere ed affogare ogni istinto educativo.