• 2 Novembre 2024 9:39

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

Il “Pride oltre la siepe”

di Francesco Polizzotti

Pride sì, Pride no!

Sono diverse le considerazioni che si possono fare sulla parata del Pride. Ci si chiede se le forme assunte negli anni siano utili a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle istanze del movimento LGBT e le sue recenti estensioni. Il mese dell’orgoglio è atteso ogni anno come occasione per far sentire la propria voce, per portare un po’ più in là l’asticella dei diritti per le persone con diversi orientamenti sessuali ed interrogare soprattutto la politica perché trovi il coraggio di non girarsi dall’altro lato. I continui episodi di omotransfobia, così come l’avallare certe espressioni offensive da parte di chi invece dovrebbe usare maggiore rispetto e considerazione per le vite degli altri, delle minoranze, di coloro che ad oggi sono maggiormente esposti ad atti di violenza verbale e fisica. E se la maggioranza delle persone considera l’omosessualità e le varie espressioni di affettività come un fatto personale da non considerarsi un problema per sé e per la collettività, rimane però l’interrogativo se le forme assunte dal Pride siano oneste con la causa di un pieno riconoscimento dei diritti LGBT, se i toni e le espressioni volutamente caricate ed ironiche non vadano invece ad etichettare in senso negativo un movimento nato per la solidarietà e contro ogni forma di discriminazione.

I Moti di Stonewall del 1969 gettarono il seme di ciò che consideriamo ai giorni nostri il Pride ed in genere il Mese dedicato all’orgoglio LGBT. Da quelle rivolte, iniziate dopo una retata della polizia presso lo Stonewall Inn, un bar gay situato nel quartiere di Lower Manhattan a New York, ad oggi forse qualcosa si è andata perdendo. Le organizzazioni e le associazioni nate proprio per ampliare i diritti civili delle minoranze sessuali, cioè tutte le persone che per orientamento sessuale, identità e/o espressione di genere, caratteristiche anatomiche non aderiscono agli standard del binarismo sessuale e dell’eterosessualità (v. Treccani), hanno attraversato molti difficili prima di essere accolte nel contesto pubblico. E questo ha permesso di accompagnare importanti processi di partecipazione e di uscita dall’isolamento di migliaia di persone. Il cosidetto “coming out” è una pratica non può limitata ad alcune persone, che con non poca fatica psicologica, emotiva, di contesto decidono di dichiarare il proprio orientamento sessuale in un clima di generale accettazione che supplisce spesso alle resistenze familiari e dell’ambiente di appartenenza.

Per il mondo cristiano la questione LGBT ha caratteristiche e sfumature diverse a seconda della maturità delle autorità ecclesiastiche da una parte e della tensione a volersi fare conoscere veramente da parte delle realtà gayfriendly. Nella società delle polarizzazioni anche esprimere vicinanza alle istanze della comunità LGBTQR+ diventa motivo di riflessione in particolare per il mondo cattolico, mentre per le altre confessioni cristiane (eccetto quella ortodossa e le frange più accese del protestantesimo americano) il pieno accoglimento delle minoranze sessuali è da tempo occasione per condividere insieme le proprie battaglie.

Eppure di passi importanti, dimostrazioni di sincera apertura e di riconoscimento non sono mancati da parte di molti organismi pastorali e di diocesi che ogni anno organizzano o partecipano alle veglie contro l’omotransfobia, le discriminazioni e la violenza avversa alle sensibilità gender. Senza entrare nell’ambito dottrinale o della morale sessuale, così come senza scomodare le posizioni espresse dal Papa in questi anni o da altri esponenti del clero e orientati ad un ascolto onesto, occorre dire come siano numerose le esperienze di accompagnamento pastorale delle persone LGBT, alcune delle quali non molto distanti da noi. E’ l’esperienza della comunità comunità cristiana del SS Crocifisso della Buona Morte di Catania, dove si condivide il vissuto di chi si vede negato ogni possibilità di amare ed essere amato dentro un percorso di fede ma anche la recente costituzione in Sicilia della rete dei Cristiani LGBT che ogni anno si incontra per un momento spirituale dedicato proprio a vivere un rapporto sereno tra fede ed orientamenti sessuali e che ha intrapreso un dialogo con alcuni vescovi siciliani. Molte sono ormai le diocesi che affidano la cura pastorale a dei sacerdoti proprio col compito di accogliere, ascoltare, condividere un cammino di conoscenza di un pezzo di umanità scartata agli occhi dei benpensanti. Sono parroci come Don Andrea Conocchia di Torvaianica che si è fatto interprete con l’apprezzamento del Papa della comunità transessuale proveniente dall’America Latina che si è stabilita sul litorale, mostrando più volte vicinanza a ciascuno, incontrandoli di persone durante le udienze. Anche il percorso sinodale ha voluto dare spazio e suggerire nuovi percorsi di accoglienza su affettività e sessualità “difficili”. Dibattito partito dalla stessa traccia dell’Instrumentum laboris senza giri di parole.

Leggiamo nella traccia: «Come possiamo creare spazi in cui coloro che si sentono feriti dalla Chiesa e sgraditi dalla comunità possano sentirsi riconosciuti, accolti, non giudicati e liberi di fare domande? Alla luce dell’Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, quali passi concreti sono necessari per andare incontro alle persone che si sentono escluse dalla Chiesa in ragione della loro affettività e sessualità (ad esempio divorziati risposati, persone in matrimonio poligamico, persone LGBTQ+, ecc.)?” (Instrumentum laboris, B, 1.2).

Va detto che su alcune questioni complesse, come appunto l’accoglienza delle persone LGBT+ (usiamo l’espressione dei documenti sinodali) definire l’insegnamento autentico è un percorso tutt’altro che facile. E non si può dare torto alla Chiesa se nel procedere verso l’autentica apertura verso la comunità LGBT non possa mantenere vivo il principio che la persona precede la sua dimensione relazionale e che, al pari della visione che la dottrina ha nei confronti delle persone eterosessuali, occorre sempre guardare caso per caso e non per presupposti ideologici.

Come afferma Mons. Carlo Bresciani, vescovo emerito di San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto, in una trattazione del 2009 “la Chiesa riconosce che ci possa essere una cura pastorale per le persone omosessuali”. “Da credenti e membri della Chiesa – aggiunge il vescovo Bresciani – è un dovere cercare di riflettere sui possibili approcci pastorali alle persone omosessuali. Sappiamo essere un terreno di forti contrasti. A molte richieste la Chiesa non può dare risposta positiva, ma non possiamo abbandonare a sè stessi cristiani che, trovandosi a vivere un orientamento omosessuale, chiedono aiuto alla Chiesa”.

Sul tema, la Congregazione per la dottrina della fede, già nel lontano 1986, ha emanato una lettera rivolta ai Vescovi. In essa si afferma: «Questa Congregazione incoraggia pertanto i Vescovi a promuovere, nella loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali in pieno accordo con l’insegnamento della Chiesa» (n. 15). Dà poi un’indicazione preziosa: «Un programma pastorale autentico aiuterà le persone omosessuali a tutti i livelli della loro vita spirituale, mediante i sacramenti e in particolare la frequente e sincera confessione sacramentale, mediante la preghiera, la testimonianza, il consiglio e l’aiuto individuale. In tal modo, l’intera comunità cristiana può giungere a riconoscere la sua vocazione ad assistere questi suoi fratelli e queste sue sorelle, evitando loro sia la delusione sia l’isolamento»(ivi).

Più di recente la stessa congregazione, in un Responsum, ha affermato come: “La comunità cristiana e i Pastori sono chiamati ad accogliere con rispetto e delicatezza le persone con inclinazione omosessuale, e sapranno trovare le modalità più adeguate, coerenti con l’insegnamento ecclesiale, per annunciare il Vangelo nella sua pienezza. Queste, nello stesso tempo, riconoscano la sincera vicinanza della Chiesa – che prega per loro, li accompagna, condivide il loro cammino di fede cristiana – e ne accolgano con sincera disponibilità gli insegnamenti” (Lettera Homosexualitatis problema sulla cura pastorale delle persone omosessuali, n. 15).

Nell’opinione pubblica purtroppo è assai radicato il pregiudizio. Complice anche una lettura ingenerosa attribuita alla Chiesa sulle norme e il Catechismo della Chiesa Cattolica. La biblista Rosanna Virgili, su questo aspetto ha offerto diversi spunti, sfatando l’idea di una chiesa distante e giudicante l’omosessualità e il cui lavoro può essere letto nella sua interezza, evitando così il rischio di manipolarlo o di adattarlo al link qui di seguito: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-persona-la-vita-e-le-esigenze-dellamore

“La Chiesa è il luogo naturale entro il quale i cristiani cercano di discernere e di rispondere al progetto che Dio ha su di loro, di mettere a frutto i suoi doni e di aprirsi alla fecondità della fede a cui sono chiamati gratuitamente da Dio” spiega sempre Bresciani, il quale non si esime dal ricordare sui ai pastori che alle persone che vogliono davvero abbracciare un cammino ecclesiale (e quindi dentro la chiesa) alcuni doveri. “Se si dà un’appartenenza ecclesiale della persona omosessuale, il pastore deve essere adeguatamente preparato ad accoglierla e a guidarla in modo pertinente nella fede. Va tenuto presente che spesso, purtroppo, singoli individui e gruppi di omosessuali cristiani, mancando di fiducia nei pastori, restano lontani dalla comunità nella convinzione, talora non senza fondamento, di non essere capiti e accolti nel modo adeguato. Restano così, di fatto, esclusi dal vivere attivamente un’appartenenza ecclesiale in grado di alimentare la loro fede, anche attraverso il sostegno dei sacramenti”.

In questo ci viene incontro il lavoro di tessitura e di discernimento di Suor Teresa Forcades, in quella che viene definita “teologia queer”. Teresa Forcades, nata a Barcellona, è monaca benedettina nel monastero di Monserrat in Catalogna, teologa, medico, attivista sociale, fondatrice del movimento politico pacifista Process costituent in Catalunya. Il suo impegno, ad esempio contro l’isolamento femminile nella Chiesa, ha trovato spazio anche nel recente Sinodo e sulla questione LGBT.

L’opera della teologa catalana fornisce diversi spunti significativi nel cammino della ricerca sul rapporto tra omosessualità e chiesa. In primo luogo, la Forcades inserisce il discorso sull’omosessualità all’interno della teologia queer, della quale è una delle più importanti promotrici e sostenitrici. Queer è un concetto antropologico utilizzato dalla Forcades per affermare il carattere unico e originale di ogni individuo e: “l’affermazione dell’impossibilità di utilizzare, nell’ambito della persona, qualsivoglia categoria, che sia di genere, di classe o di razza. Le categorie che classificano l’essere umano sono, per così dire, opacità, che non consentono di vederlo nel suo tratto di originalità” (FORCADES, T., Siamo tutti diversi. Per una teologia queer, Castelvecchi, Roma 2016, p. 56-57).

Questo cammino teologico intende fare i conti con la diversità sessuale senza esprimere nessuna condanna a priori, per aprirsi ad ogni possibile comprensione. Punto di partenza di questa riflessione teologica è la percezione dell’identità della persona intesa non in modo statico, ma dinamico. Il riferimento di questa intuizione è l’idea di creazione continua. Essere creati ad immagine e somiglianza di Dio, significa assumere la responsabilità di collaborare all’opera della creazione, che è in continuo divenire. In questa prospettiva, l’identità personale non è un dato acquisito una volta per tutte, ma una possibilità che ci viene offerta. Adulti si diventa grazie ad una costante assunzione delle proprie responsabilità e alla capacità di porsi in modo libero e creativo dinanzi alle strutture culturali, che assimiliamo e che ci fanno credere di essere in un modo invece che in un altro. “Uomini e donne – sostiene Forcades – sono chiamati ad avventurarsi in un processo personale che li porta in uno spazio che io chiamo queer, uno spazio aperto in cui l’identità è da cercare, non è qualcosa di già dato”.

Tutti nella nostra vita abbiamo peccato di giudizio, abbiamo espresso qualche opinione poi rivelatasi anche solo parzialmente sbagliata. Nessuno è immune dal fascino di dire qualcosa sui fatti che ci circondano. Se poi trasliamo tutto questo nell’era digitale, i tribunali dei social ogni istante emettono puntualmente le loro sentenze. La non conoscenza ad esempio porta anche la comunità LGBTQR+ a ritenersi emarginata dai discorsi ecclesiali, convinta della chiusura a priori da parte della Chiesa, dei Vescovi, dei sacerdoti. Questo porta anche le persone più attrezzate a cadere nel pregiudizio “al contrario”. Il sentirsi condannati, giudicati, resi abominio da una morale rigida e spietata. E’ chiaro che il dialogo va costruito in due. Non ci si può esimere da un esercizio “laico” di reciproca conoscenza. Perché se è vero che esistono resistenza da una parte, non possiamo non vedere resistenze anche dall’altra parte. Anche il ricorrere a caricature più o meno geniali durante le parate o il considerarsi persone libere di potersi determinare e di identificare lungo il continuum del gender senza vivere dentro una collettività che va sempre preparata e rispettata perché maturino i tempi e le condizioni perché ogni diritto trovi il proprio riconoscimento e venga preceduto dal dovere universale di costruire relazioni di conoscenza e di reciprocità. Ad insegnarcelo è lo stesso movimento femminista, quello della non violenza, quello personale di Pier Paolo Pasolini, il quale caricò su di sé il peso del giudizio e il fardello di una omosessualità innata ma pur sempre interrogante sul destino dell’uomo e il suo rapporto con la libertà.

Scrive il poeta: «Io sono stanco di essere così intoccabilmente eccezione, ex lege: va bene, la mia libertà l’ho trovata so qual è e dov’è; lo so, si può dire, dall’età di quindici anni, ma anche prima… Nello sviluppo del mio individuo, della diversità, sono stato precocissimo; e non mi è successo, come a Gide, di gridare d’un tratto “Sono diverso dagli altri” con angosce inaspettate; io l’ho sempre saputo» (Emanuela Liverani, L’omosessuale irriverente, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 13, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.5968). Il gridare di cui parla Pasolini è un gridare forse più di scena che di lotta. Il riferimento all’amico Gide ci riporta anche a come si vivono oggi le battaglie LGBTQR+, in cui capita che le esistenze pure e delicate delle persone, diventano tutto d’un tratto esagerate, coperte da slogan e rivendicazioni che in alcuni casi si prestano più alla notizia che alla difesa del vissuto delle stesse persone che si pensa di rappresentare.

Alla fine di ogni Pride capita così che alcuni tornino a casa più vuoti di prima, perché nel turbinio di una manifestazione sulla carta corale, il rischio che si parta soli e si ritorni alle proprie vite soli è grande.

Il “Buio oltre la siepe”, (To Kill a Mockingbird) è un romanzo della scrittrice statunitense Harper Lee, con cui almeno una volta nella vita ci siamo confrontati riporta un caso specifico in cui il pregiudizio e la complicità di una America ancor amolto puritana hanno rischiato di condannare a morte un innocente. Leggere questo  testo significa aprire la mente al dubbio che nessuna condanna possa essere emessa nell’incertezza delle cose e dei fatti e soprattutto dietro il pregiudizio. Tuttavia, il titolo nella lingua italiana si discosta da quello originario perché riprende uno dei passi del libro in cui si parla di Boo Radley, il vicino di casa dei Finch, che Jem e Scout, entrambi figli dell’avvocato che poi scagiona dalle accuse il bracciante nero Tom Robinson ingiustamente accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca (Mayella Ewell), non hanno mai visto e che temono solo perché non lo conoscono: oltre la siepe che separa la casa dei Radley dalla strada c’è l’ignoto. Il “buio oltre la siepe” rappresenta l’ignoto e la paura che genera il pregiudizio.

Se il movimento per i diritti civili rivendica a buon titolo che il percorso dei diritti è ancora in salita e che c’è nell’aria quell’acredine di pregiudizio e di discriminazione, non si può non chiedere a questo stesso movimento di liberarsi a sua volta da altri pregiudizi. E non si tratta più di rapporto tra libertà sessuali e fede e quindi il vivere la propria sfera affettività dentro un regime di “norme, rinunce e di castità” ma di dissipare quel buio che spesso costruisce muri, anche più alti di quelli a cui si è stati sottoposti per tanto, troppo tempo.

Arriverà quel momento in cui il Pride salterà la siepe delle proprie certezze, aprendosi anche a forme nuove di orgoglio che non sospendano per un giorno la solitudine in cui spesso vivono le persone LGBT ma diventi occasione di relazione, di amicizia, di solidarietà per quegli scarti di umanità ancora privi di una propria dignità e difesa?