• 9 Dicembre 2024 7:38

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

di Nicola Antonazzo – Con la fine degli esami di maturità 2023 abbiamo mandato in soffitta un altro anno scolastico e congedato le classi del 2018. A terminare il loro percorso sono stati gli studenti iscritti alle superiori nell’ultimo anno scolastico “intero” del pre-pandemia. Gli ultimi studenti ad essere entrati nella secondaria di secondo grado e aver completato i dieci mesi di scuola senza conoscere lo spauracchio delle interruzioni e della Dad. Per molti di loro inizieranno le tanto attese vacanze, fatte di mare, sole e allegria. Per altri, non pochi, sarà il momento di cercare un lavoretto per aiutare la famiglia o per guadagnarsi i primi scampoli di indipendenza dai genitori. Per tutti loro il prossimo settembre non suonerà più nessuna campana, al massimo saranno protagonisti di una corsa per il posto migliore a lezione nei panni di matricola universitaria. Ma quanti di loro saranno veramente pronti ad affrontare il mondo? Cosa resterà degli ultimi anni delle superiori o dell’intero ciclo di studi che li ha trascinati fino alla maturità?

Negli ultimi tempi si è fatta strada l’idea che la scuola debba preparare al mondo del lavoro, che le competenze acquisite sui banchi debbano essere immediatamente spendibili per trovare un impiego se non il giorno dopo gli esami almeno entro i sei mesi successivi. Il sacrosanto diritto di poter spendere quanto imparato in tante ore passate sui banchi è ammantato da una pericolosa narrazione che ha spogliato quelle stesse ore di ogni dimensione educativa. Ciò che si predica è che la scelta dell’indirizzo debba essere fatta  solo ed esclusivamente seguendo  il paradigma della garanzia lavorativa. Nulla di sbagliato in fondo in apparenza ma se proviamo a scendere più in profondità incontriamo una pianta senza radici destinata a durare poco o a soffrire ad ogni stagione. Una volta si andava a scuola per affrancarsi da una condizione di inferiorità sociale e per iniziare ad ascendere lungo i gradini della scala sociale. Le storie di impegno sui banchi, il più delle volte, si trasformavano in storie di “successo” personale: un buon impiego, una sicurezza economica, la possibilità di costruire un futuro.  Non era una strada per tutti perché in pochi potevano permettersi la possibilità di ambire ad un lavoro diverso da quello dei propri genitori o nonni.

Oggi sembra essersi persa la memoria del vero motivo per cui è stata inventata la scuola. Oltre a trasmettere i rudimenti della comunicazione (leggere e scrivere) e del calcolo, la scuola, da sempre, è stata la gavetta della vita. A scuola si andava per imparare a stare al mondo con gli altri, a conoscere le regole del vivere; si andava per imparare ad immaginare il proprio futuro. Si usciva con una certezza, ormai dimenticata e superata: nulla si può improvvisare, solo la costanza salva dal pressapochismo e dall’incertezza. Dalla scuola di oggi si esce con una certezza diversa: puoi fare tutto. Non importa che tu non abbia i rudimenti del mestiere: ti puoi improvvisare giornalista allo stesso modo in cui puoi tentare la “carriera” di medico. “Male che vada…faccio l’insegnante” è il mantra che ho sentito ripetere da tanti alunni alla fine del loro percorso. Speriamo vada meglio, speriamo che il post-esame riesca a far nascere il desiderio di fare qualcosa per cui ci si sente portati, che porti alla scoperta del proprio posto nel mondo (non solo del lavoro). E speriamo che la scuola, al di là delle strutture e dei fondi di cui si sente sempre povera, al di là della certificazione di competenze non meglio precisate,  sappia tornare a indicare la luna e non il dito, il futuro e non solo la fine della giornata.

Anche se non dovesse riuscire a sfornare centisti da sfoggiare in bacheca insieme ai trofei di calcetto e briscola in cinque, male che vada, avrà fatto il suo dovere.