di Nicola Antonazzo – Il mondo, si sa, segue le mode, e la scuola, da questo punto di vista, non fa eccezione. Ogni moda è accompagnata da un racconto e uno dei più coinvolgenti è quello che invita a mettersi in gioco, sempre e comunque. Uscire dalla propria zona di comfort, dalla propria grotta e andare incontro al rischio e alla novità. Tutto sommato bello e affascinante. Almeno in astratto. Mettersi in gioco quando tutto sembra ormai consolidato e sicuro, mettersi in gioco perché non si sa mai, oggi-domani un concorso. Giocare, però, è una cosa seria e come ogni cosa seria va maneggiata con cura. Dietro una lodevole volontà di migliorarsi e non rimanere ancorati e vincolati alle abitudini che divorano ogni singolo istante c’è forse quell’insaziabile ricerca di novità. Siamo sempre più condizionati dall’inesorabile abbassamento della nostra soglia di godimento del presente; come la soglia di attenzione dei neonati che abbandonano il migliore dei giochi dopo poco tempo, stiamo sviluppando la tendenza a cambiare, con una certa frequenza, ciò che inizia ad annoiarci e non ci soddisfa come prima. Vale per le relazioni umane così come per il lavoro e per ogni altra attività che ci vede in qualche modo attori-protagonisti. E protagonisti, si sa, fa un po’ rima con egoisti. Ecco che mettersi in gioco diventa, il più delle volte, la scusa per abbandonare l’impegno principale per sperimentare nuove e più esaltanti esperienze.
In campo scolastico significa passare dal “tradere” (trasmettere conoscenza) al “tradire” (inondare di belle informazioni gli studenti nella speranza che possano servirsene), dall’insegnare all’informare. Il docente che si mette in gioco è costretto a camminare su scomodissimi trampoli di neo-didattica pur di sembrare all’avanguardia. Scomodi, ma belli e alla moda. Messosi in gioco il docente passerà molte più ore a compilare carte dovendo sperimentare nuove strategie e modelli pedagogici, autoconvincendosi di fare il bene e il meglio quando, nella migliore delle ipotesi avrà il merito di trascinare all’indietro, verso il caos primordiale, le lancette della didattica. Sarà un docente-pedagogista capace di implementare le nuove e più avanzate tecnologie didattiche potendo sventolare, nell’ultimo caldo e faticoso collegio docenti di fine anno, risultati statisticamente inoppugnabili e report pieni zeppi della più fresca nomenclatura pedagogica. Il plauso dirigenziale e di tutta la coorte scolastica sarà il giusto riconoscimento per il gioco giocato, per la zona di comfort abbandonata e per le ore di aggiornamento accumulate come i punti della bottega sotto casa. Il docente che si è messo in gioco non ha giocato e non si è divertito, ha solo risposto all’ennesima richiesta di un sistema che lo vuole sempre efficiente (ma non necessariamente efficace) nella sua performance professionale.
Fuori dalla sua comoda grotta, il docente giocatore avrà dimostrato di non essersi accontentato della solita e barbosa routine ma avrà giocato l’ennesima partita. Avrà vinto? Avrà perso? In ogni caso potrà raccontare, a se stesso e ai suoi colleghi, di essersi messo in gioco e un’altra tacca sul curriculum sarà segnata.