• 9 Maggio 2024 4:52

Quotidiano di ispirazione cristiana e francescana

Esperienza formativa in Amazzonia per nove frati minori

Durante i mesi di gennaio e febbraio, nove fratelli – formandi e formatori – della Provincia di San Francisco Solano (Argentina), sono andati a trascorrere del tempo con la popolazione Mundurukú dell’Amazzonia brasiliana. Città e territorio in cui, l’ Ordine dei Frati Minori, è presente attraverso la Custodia di San Benito dell’Amazzonia.

Condividiamo la loro straordinaria esperienza pubblicata su www.franciscanos.org.ar

Come Dio, l’Amazzonia sarà sempre più di quello che siamo riusciti a cogliere di lei, e molto più di quello che possiamo comunicare in queste righe. Non scriviamo per descrivere o informare. Questa non è una cronaca. Scriviamo come antidoto all’oblio, scriviamo per poter ritornare (simbolicamente e letteralmente), scriviamo per onorare e scriviamo per, attraverso ciò che ci è stato dato di vivere, risvegliare negli altri il desiderio di “andare a vedere” il tesoro nascosto della Mundurukânia, per il quale, come dice quella parabola del Regno, vale la pena vendere tutti i beni.

La pedagogia del territorio ci obbliga ad entrarvi a poco a poco. “Addentrarsi” potrebbe essere un verbo per esprimere più fedelmente ciò che abbiamo vissuto al nostro arrivo. Perché succede così: non si arriva e basta; si arriva avvicinandosi.

Dall’ultima città a cui si accede via terra fino al villaggio “Missione San Francesco”, dove vivono i frati, ci sono voluti due giorni di navigazione. Due giorni di fiume, giungla. Sempre: acqua – pulita, serena, agitata, abitata – e vegetazione – abbondante, imponente, viva, generosa. E in mezzo a questo paesaggio infinito, come parte di esso, sono comparsi anche i villaggi. Sulle rive del fiume: case, la cappella, ragazzi e ragazze che giocano, donne che lavano, uomini che tornano dalla pesca. Ciò che poco dopo saremmo andati a vivere e a godere come vita quotidiana, lo abbiamo visto in quel momento come una fotografia dalla barca.

Questo ritmo, queste cartoline, questa volta, risvegliavano in noi gratitudine, sorpresa, rispetto. Ci siamo resi conto, dopo mesi di immaginazione, di dove e tra chi eravamo. E questo ha generato in noi un desiderio, un atteggiamento: toglierci le scarpe, perché la terra su cui camminavamo era terra sacra.

La nostra vita quotidiana lì aveva due note centrali: semplicità e alternanza. Sono state settimane di intensa e gioiosa condivisione fraterna. Mentre eravamo in Missione, generalmente al mattino facevamo l’Eucaristia e i lavori domestici, e nel pomeriggio il calcio con i giovani e le visite alle case. Cerchiamo di unirci alla vita quotidiana dei fratelli e della comunità, e da lì – dal reale – fare esperienza. Tagliare l’erba, cucinare, sistemare la casa, andare a pescare, imparare a fare mestieri, imparare la lingua, cantare, giocare con i bambini, visitare gli ammalati, visitare le famiglie, mangiare tante cose per la prima volta. Ogni 5 o 6 giorni uscite in piccole fraternità di 2 o 3 per visitare altri villaggi, più piccoli e più lontani. E lì, la stessa intenzione: arrivare, ascoltare, lasciarsi condurre, aprirsi all’apprendimento, unirsi al ritmo comunitario di ogni villaggio.

Abbiamo sperimentato la forza della visita, l’importanza della presenza e il valore del tempo condiviso; tempo libero, tempo sempre presente. “Essere”, siamo stati invitati a quella chiave e da lì abbiamo provato a vivere. Era essenziale assumere due condizioni che l’esperienza ci imponeva, non solo come limite, ma soprattutto come possibilità: non conoscere e non controllare.

Non conoscere la lingua, non saper svolgere il proprio lavoro, non conoscere la propria storia, la propria cultura; il “non sapere” come spazio aperto per apprendere, per ascoltare di più e parlare di meno, per chiedere di più e rispondere di meno, per valorizzare, per lasciarsi sorprendere, per chiedere aiuto, per lasciarsi curare. E non controllare: il fiume, la pioggia, il sole, la luce, la notte, l’oscurità, la fragilità del corpo che si adatta. Di volta in volta dovevamo entrare nel ritmo di ciò che era e non di ciò che volevamo che fosse. Non sapere e non controllare affinché, a poco a poco, incontro dopo incontro, visita dopo visita, ci venisse rivelato il volto mundurukù di Dio.

Ciò che abbiamo messo in comune, conoscendo e condividendo la vita lì, abbiamo scoperto che aveva la dinamica delle parabole di Gesù. C’erano molte cose nel mundurukù che ci rendevano paragonabili al “Regno dei cieli”. Pratiche, simboli, costumi, modi di organizzare la comunità che ci hanno parlato del Vangelo. Ne condividiamo due:

– Colazione comunitaria. In ogni villaggio è presente un barracón (sala comunitaria), nel quale ogni mattina si riunisce la comunità, dopo il bagno nel fiume. Ogni famiglia porta del caffè e qualcosa da mangiare. L’inizio della giornata è in comunità. Si condivide, si danno alcune informazioni se necessarie, e poi ognuno va a svolgere i propri compiti, il proprio lavoro.

– Cucinare con farina di manioca e tapioca. In ogni villaggio c’è una cucina comunitaria che prepara questi due alimenti a base di manioca. Sono cibo quotidiano. Il processo prevede numerose fasi: raccolta, mondatura, grattugiatura, sgocciolamento, pressatura, essiccazione, tostatura. Vedere come le famiglie si organizzano e aiutano a produrli è una scuola di lavoro comunitario.

Ne nominiamo due tra molti altri. Il loro legame e connessione con la giungla e il fiume, il loro rispetto per ciò che cacciano e pescano, sempre premurosi e mai accaparrando, il loro modo di salutarsi personalmente, l’evidente gioia con cui vivono, il modo in cui allevano i loro figli, la difesa del loro territorio, la cura della loro lingua e dei loro costumi… gran parte di ciò che vivono e sono, siamo incoraggiati a trasformarlo in una parabola del Dio che ci hanno annunciato.

Una delle cose che più ci ha interessato è stato conoscere la storia dell’incontro tra il popolo Mundurukù e i primi frati arrivati, anni fa. Per i nativi di quelle terre il flauto era uno strumento associato alla loro divinità, e i frati che arrivarono, senza saperlo, erano flautisti. Ciò fece sì che la città li accogliesse poco a poco. Se così non fosse stato, probabilmente questi coraggiosi fratelli sarebbero morti poco dopo lo sbarco, dopo 6 mesi di navigazione, e noi, più di un secolo dopo, non saremmo in grado di scrivere questo.

In seguito a questo primo incontro, il legame tra i Mundurukù e i “pain” (così ci chiamano) è diventato un’alleanza. Loro, che ancora oggi non ricevono i “bianchi”, ci hanno reso parte della loro gente. Ancora: loro, che non accolgono nessuno che non sia mundurukù, ci hanno reso parte della loro gente, della loro cultura, della loro gerarchia, della loro storia. Ed è così che ci hanno fatto sentire, dal primo all’ultimo giorno. Ci hanno accolto per la presenza degli altri lungo la loro storia, ci hanno accolto perché siamo frati, ci hanno accolto senza conoscerci, ci hanno accolto perché hanno fiducia, ci hanno accolto per il significato che la nostra presenza ha avuto e ha per loro. Ci ricevono così. E noi, come Ordine, come possiamo accettare vocazionalmente e carismaticamente che un popolo indigeno e amazzonico, con tutto ciò che ciò significa, ci renda parte della sua identità? Crediamo che la nostra presenza lì sia stata, sia e debba continuare ad essere un tesoro da custodire e tutelare; un tesoro per cui vale la pena vendere comodità, titoli, strutture e calcoli.

Apprezziamo profondamente tutti coloro che hanno reso possibile questa esperienza. Soprattutto la Custodia di San Benito per averci accolto con tanta disponibilità e familiarità, le Missioni Francescane per il loro sostegno e sostentamento, e i fratelli Sebastián e Amauri, per essere lì, per vivere “tra loro”, per averci fatto sentire a casa, per la generosità e l’apertura con cui hanno accolto la nostra vita, le nostre proposte, i nostri desideri e i nostri limiti.